"JOHN FANTE E IO" di GAETANO CAPPELLI

Gaetano Cappelli  (Premio John Fante Autore tra due mondi 2008)

John Fante, lo scoprii all’epoca del mio ritorno in provincia, a Potenza, da dove me n’ero andato all’università, a Roma, più che altro per star dietro al mio amore. Ma il mio amore l’aspettava il suo bel collegio di suore spagnole – una sorta di strambe, bassocchie, amorevoli fatine. Io avevo solo la mia valigia, il mio violino – che, tra l’altro, non sapevo suonare – i pochi soldi di mio padre e un gran magone dentro.

La prima notte la passai all’Esercito della Salvezza – anche se in una camera singola. Ci misi un quarto d’ora a leggere, stravolto dallo sconforto, il lungo regolamento appeso dietro la porta e alla fine, guardando la coperta rattoppata, le pareti gibbose, il pavimento impreziosito di scaracchi, mi parve che nonostante la meticolosità con cui era stato redatto mancasse la norma principale: vietato suicidarsi.

Da quella notte, per molte altre notti, vagai ospite tra case di studenti fuorisede – basilischi con qualche guest-star calabrese – ladri, artistoidi, drogati, utopisti, terroristi, semplici perdigiorno: conobbi persone che mai avrei conosciuto nel mio fondo di provincia – né mai avrei voluto conoscere. E ogni volta che mi rannicchiavo in un giaciglio di fortuna, se non proprio sul pavimento, cos’avrei dato per essere nella mia stanzetta.

Così, una volta laureato, ero stato bene felice di tornarmene a casa. Tanto più che m’ero deciso a diventare uno scrittore.

Anzi, avevo appena pubblicato un racconto su una rivista underground molto à la page, e fu proprio in quei giorni che mi capitò tra le mani Chiedi alla polvere di John Fante – intendiamoci non lo comprai certo per la prefazione di Bukowsky; non l’ho mai troppo digerito, quel tizio. Fante invece, c’era tutta la mia vita lì, dentro quel libro. Non stavo forse andandomene anch’io in giro da giorni, con in tasca la rivisita del mio racconto, sentendomi più alto di spanna proprio come Arturo Bandini col suo ineguagliabile “Il cagnolino rise”? I suoi sogni e le sue speranze erano i miei sogni, le mie speranze; dal momento che quel libro – ne leggevo e rileggevo le pagine in preda a un godimento irrefrenabile – è il libro che ogni aspirante scrittore dovrebbe leggere.

Immaginai di essere un grande scrittore e di scendere da una grande auto nera con un’elegante pipa di radica in bocca e in mano un bastone da passeggio, seguito dalla donna con la volpe argentata, visibilmente orgogliosa di me. Firmammo il registro dell’albergo, poi ordinammo un cocktail, ballammo un po’, prendemmo un altro cocktail e io recitai qualche strofa in sanscrito, e la vita mi sembrava meravigliosa perché ogni due una fata mi fissava estasiata ed io, il grande scrittore, ero costretto a farle un autografo sul menu, rendendo pazza la mia compagna con la volpe argentata.

Quante volte, oh aspirante scrittore, chiuso nella tua stanzetta, esausto per il troppo scrivere – “nessuna attività che io conosca richiede più tempo della scrittura”, John Gardner – ti sei lasciato trasportare da queste e “altre scemenze del genere” traendone nuova energia? Oh, e non c’è niente da vergognarsene giacché possedere un cuore candido, come quello di Bandini, è la prerogativa di ogni narratore che si rispetti.

Che personaggio meraviglioso questo Bandini!

Tenero e iracondo, umile e sbruffone, preda di accessi di megalomania e, subito dopo, della piu totale depressione, rimane una delle più felici invenzioni della letteratura americana del Novecento; ed è tutt’altro che il frutto di un’improvvisazione.

Fante vi arriva dopo un lungo lavoro di cui si trova traccia nei racconti pubblicati solo successivamente ai primi due romanzi – Aspetta primavera, Bandini e, appunto, Chiedi alla polvere – col titolo di Dago Red, come venivano graziosamente chiamati gli italiani per l’abitudine di bere vino rosso, oggi divenuto uno dei must dell’upperclass statunitense.

In “L’odissea di un Wop”, il giovane protagonista scopre, con sua somma costernazione, d’essere proprio un “wop” come, con un altro nomignolo ugualmente “affettuoso” – acronimo di without passaport – venivano apostrofati gli italo-americani:

Fin dall’inizio ho sentito mia madre usare la parola “wop” e “dago” in un tono che denota un profondo disgusto. E’ come se la sputasse fuori. Come se le si slacciassero le labbra. Per lei contengono l’essenza stessa della povertà, dello squallore, della sporcizia.

Per non parlare dell’imbarazzo che il protagonista prova davanti ai suoi compagni quando li porta a casa e nella stanza fa ingresso la nonna:

Mia nonna è una wop senza speranze. E’ una piccola contadina tracagnotta che va in giro con le braccia conserte. Entra in camera mia e cerca di parlare coi miei amici. Parla inglese con un pessimo accento, con questo incessante rotolio di vocali. Quando, con quel suo fare semplice, con quei suoi vecchi occhi sorridenti, si mette davanti a uno dei miei amici e dice: “Ti piace a te di andare alla scola delle monache”, il cuore mi si ribella. Mannaggia! Che disgrazia: ormai lo sanno tutti che sono italiano.

Tutto è meglio che essere italiano. Così quando la madre del protagonista gli racconta che il padre prima di emigrare negli Stati Uniti è stato due anni in Argentina, lui per tutto il giorno non riesce a pensare ad altro finchè la notte si risveglia con un sobbalzo:

Nel buio, brancolo verso la camera di mia madre. Al suo fianco dorme mio padre, e io la sveglio piano, in modo che lui non si desti.

Sussurro: Torno a letto, sconsolato, disgustato.

C’è già tutto Bandini qui dentro! Quel suo continuo civettare col melodramma per rovesciarlo in parodia, riuscendo a mantenere però, anche nelle punte del più svagato cinismo, una sua temperatura sentimentale. E’ qui che, probabilmente, Fante capisce le potenzialità espressive implicite nelle sue radici di italo-americano. Un mondo che vorrebbe cancellare ma che, contro ogni volontà, continua a far parte del suo io più profondo e che, da questo racconto in poi, verrà descritto certo scansando l’oleografia vischiosa tipica della produzione letteraria degli italiani d’America fino a quel momento, grazie a quel mix di ironia, crudeltà e sentimentalismo beffardo che è il marchio di fabbrica di Fante, anticipando, a ben guardare, i grandi scrittori ebreo-americani, da Bellow a Roth.

A questo punto resterebbe da chiedersi come mai uno scrittore che ha talmente amato il suo mestiere da farne l’oggetto dei suoi romanzi più riusciti, smetta poi di pubblicarne per dedicarsi al cinema.

Questione di soldi, è ovvio. Scrivere, lo abbiamo detto, è un lavoro improbo dal risultato assai aleatorio. Il successo allora può essere una specie di carburante che serve per continuare a scrivere. Bene, questo propellente a Fante, a un certo punto, deve essere mancato tanto da convincerlo a lasciarsi andare in un mondo che non era il suo mondo, a vivere una vita che non era la sua vita – “Il denaro mi teneva lì, l’assenza di povertà e la paura che tornasse” dice Fante, per bocca della sua creatura – sebbene il suo sogno sia sempre restato quello di tornare a scrivere romanzi. Come accadrà nell’ultima parte della sua vita, a cui appartiene quell’altro suo piccolo capolavoro che è Sogni di Bunker Hill.

Reso cieco dalla malattia, che lo colpisce in maniera crudele nel corpo, Fante ritroverà infine la sua “voce”, la stessa che ha reso grande Chiedi alla polvere.

Bunker Hill è stranamente simile a quel romanzo: ci si imbatte in alcuni dei suoi personaggi secondari, in delle scene analoghe; soprattutto c’è il ritorno del grande Bandini: sembra non sia passato un giorno dalla sua apparizione.

E’ sempre il solito adorabile sbruffone che prima di approdare allo sfavillante mondo del cinema, che ne farà, come il suo inventore, un frustrato, si imbatte in sceneggiatrici ultramondane, produttori collerici che per una volta non scopano le solite attricette sul classico divano ma, su quello stesso divano, scoprono la propria moglie trombata da qualcun altro: e da chi se non dall’inarrivabile Bandini?, che inoltre, proprio come alla sua prima apparizione, si innamora di donne lunatiche, ha incontri con prostitute repellenti, ripensa con nostalgia alla sua mamma devota della Vergine Maria e perfino allo strafottente padre e sogna, sì sogna con sempre più nostalgia di tornare a scrivere:

All’improvviso feci un sogno, un bel sogno per un romanzo… Potevo assaporarlo. Potevo abbracciarlo. Di colpo l’autocommiserazione si era esaurita. C’era ancora vita, c’erano una macchina per scrivere e fogli, e occhi per vederli, e pensieri per mantenerli in vita. Mi sedetti in cima a Bunker Hill, sotto la pioggia, e il sogno mi avvolse, e sapevo cosa avrei fatto. Sarei andato a Terminal Island e mi sarei trovato una baracca da pescatore sulla spiaggia, mi sarei seduto lì e avrei scritto un romanzo su Helen Brownell e me. Avrei passato dei mesi in quella baracca, accumulando le pagine e fumando una pipa di schiuma sarei diventato di nuovo uno scrittore nel mondo.

Sogno che si è realizzato per un’ultima indimenticabile volta.

 

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